Giovanni De Gamerra (Livorno, 26 dicembre 1742 – Vicenza, 29 agosto 1803) è stato un librettista italiano.
Nato a Livorno da una famiglia di origine spagnola (o maltese) stabilitasi in Toscana agli inizi del Settecento. Fu mandato in seminario per intraprendere gli studi. In alcuni versi scritti all’età di diciassette anni si definiva abate, probabilmente più per un vezzo esteriore che per profonda adesione spirituale. Studiò diritto nell’università di Pisa, ma abbandonò prima del tempo gli studi. Forse per seguire la volontà paterna, nel 1763 il sedicente abate divenne cadetto, stimato per le sue doti e per l’ottima conoscenza del tedesco. Ma a partire dal 1765 era a Milano (dove rimase almeno fino al 1770) e qui componeva la prima delle sue opere, la tragedia in versi Don Fernando conte d’Errera. La sua famiglia si preoccupava di inserirlo nell’esercito asburgico e nel 1767 entrava nell’esercito asburgico col grado di sottotenente.
A causa delle sue precarie condizioni di salute, colto da febbri e sbocchi di sangue, abbandonò l’esercito ma gli fu concesso di usufruire della divisa e il poeta confermava incondizionatamente la sua fedeltà agli Asburgo, ligio ad una posizione conservatrice che orientò coerentemente tutta la sua avventurosa esistenza. L’appoggio della duchessa Serbelloni gli consentì probabilmente di entrare alla corte viennese, dove poté conoscere Metastasio, ottenendone consigli e protezione, ma a Vienna risiedé stabilmente solo a partire dal 1775. Questo periodo coincide con il momento iniziale della sua ascesa: nel 1772 il suo Lucio Silla, musicato da Mozart, fu rappresentato a Vienna e al teatro Ducale di Milano. L’anno seguente, con le musiche di un altro celebre compositore, J. Christoph Bach, il Lucio Silla era ascoltato nella versione tedesca a Mannheim, alla presenza dell’elettore palatino di Baviera e a Vienna alcuni nobili recitavano la tragedia Maria Stuarda. Nel 1773 fu stampato il primo dei sette volumi della Corneide, un poema eroicomico in ottave, di ibrida intonazione erotico-erudita, che divertì l’ottantenne Voltaire, il cui consenso spinse l’autore a comporre gli altri sei volumi dell’incredibilmente prolisso poema.
Questo primo periodo viennese, pur tra i successi e le lodi, riservò al poeta risvolti amari poiché, prefigurando il suo ruolo esistenziale di vittima delle avversità, si lamentava di congiure femminili ai suoi danni e della ingiustizia dei potenti. Fra il 1775 e il 1777 dovette far ritorno in Toscana in pessime condizioni, malato e pieno di debiti. A questo momento così drammatico risale la vicenda che imprimerà una sigla prevostiana dai risvolti demenziali alla sua esistenza: l’amore per la giovane livornese Teresa Calamai. Si ridusse a vivere per più di un anno in una soffitta di fronte alla casa di Teresa, per comunicare almeno con espedienti mimici con la fanciulla, la famiglia della quale negava risoluta il consenso al matrimonio. Mentre si trovava a Napoli (dove si era recato una prima volta nel 1779 per occuparsi di un ambizioso progetto teatrale), la fanciulla, ammalatasi gravemente, lo richiamò a Pisa e morì poco dopo il suo l’arrivo.
Oberato di debiti, contrasse matrimonio, appena un anno dopo la morte di Teresa, con la pisana Anna Veraci, grazie alla cui dote estinse in parte un grosso debito nei confronti degli editori della Corneide.
Verso la fine del 1785 pensò alla realizzazione della sua idea di fondare un teatro stabile a Napoli, con l’appoggio di Ferdinando IV, il quale intendeva evidentemente contrapporsi ai Borboni di Parma, che incoraggiavano con famosi concorsi le nuove mode drammaturgiche flebili e lacrimose.
Morì il 29 agosto 1803 a Vicenza, dove si era stabilito per ragioni ignote.