VINCENZO MALENCHINI

Busto nella sala del consiglio comunale di Livorno

Vincenzo Malenchini (Livorno, 8 agosto 1813 – Collesalvetti, 21 febbraio 1881) è stato un militare e politico italiano.

Studiò nel collegio ducale di Lucca e presso l’Università di Pisa, dove si laureò in giurisprudenza. Nel 1831, giovane matricola di principî liberali, si era distinto nel prestare assistenza ai profughi provenienti dallo Stato pontificio e nel diffondere volantini inneggianti alla costituzione e alla libertà dei popoli. L’agiatezza della famiglia lo mise in condizione di non dover esercitare la professione forense e di poter coltivare i suoi interessi culturali e politici, che lo videro avvicinarsi alla Giovine Italia. Con Mazzini entrò certamente in contatto nel 1843, durante un suo soggiorno a Londra, stringendo un rapporto di amicizia che si protrasse nel tempo.

Tali frequentazioni lo fecero segnalare alla polizia come sospetto di liberalismo, e furono la causa, nell’aprile 1844, del suo arresto a Roma a opera delle autorità pontificie. Rinchiuso in Castel Sant’Angelo, venne liberato dopo quarantasette giorni di reclusione grazie alla mobilitazione in suo favore di parenti e amici. Riprese allora i suoi viaggi per l’Europa e fu in Inghilterra, in Francia e in Belgio dove conobbe Vincenzo Gioberti.

Nel 1847 accolse con favore le riforme di Leopoldo II e nel settembre di quell’anno accettò il comando di una compagnia della guardia civica appena istituita. Nel marzo 1848, allo scoppio della guerra d’indipendenza, si arruolò come volontario in uno dei due battaglioni livornesi e, col grado di capitano dei bersaglieri, si segnalò nella battaglia di Curtatone del 29 maggio. Un mese dopo fu eletto deputato di Livorno al Parlamento toscano e nell’agosto seguente, dopo l’armistizio con l’Austria, si adoperò per la ripresa della guerra e cercò di mediare fra la cittadinanza in tumulto e il governo granducale. Nell’ottobre 1848, formatosi il ministero Montanelli-Guerrazzi, ottenne il comando di un battaglione di volontari, ma, dopo la fuga del granduca a Gaeta e la nascita del governo provvisorio dei democratici, non condividendo il nuovo indirizzo politico, preferì dimettersi. Si arruolò allora come soldato semplice nell’esercito piemontese e combatté valorosamente a Novara.

Dopo la restaurazione lorenese restò fedele ai principî liberali e respinse la croce di cavaliere conferitagli da Leopoldo II per il suo comportamento nella giornata di Curtatone. Negli anni successivi prese progressivamente le distanze dall’ala più radicale del movimento patriottico, con la quale pur tuttavia restò in contatto almeno fino al moto mazziniano del 1857, che doveva scoppiare a Livorno contemporaneamente alla spedizione di Sapri e che egli cercò fino all’ultimo di frenare. Aderì poi alla Società nazionale italiana, di cui fu il principale esponente nella città labronica, e in tale veste fu tra gli artefici della rivoluzione del 27 aprile 1859, che pose fine alla dinastia lorenese in Toscana. Quello stesso giorno entrò a far parte del governo provvisorio che resse la Toscana fino all’11 maggio seguente, quando il commissario regio piemontese nominò il nuovo ministero, nel quale egli ottenne il dicastero della Guerra. Uomo d’azione più che di pensiero, lasciò però ben presto l’incarico per accorrere in Lombardia e partecipare alla guerra del 1859 nel reggimento cacciatori degli Appennini.

Eletto deputato all’Assemblea toscana nel 1859, votò a favore dell’annessione al Piemonte e subito dopo accorse in Emilia al fianco di Garibaldi, adoperandosi per appianare le divergenze insorte fra il condottiero, che voleva affrettare l’occupazione di Roma, e il dittatore Farini. Il 25 marzo 1860 fu eletto deputato nel collegio di Livorno III, dove prevalse nettamente su Francesco Domenico Guerrazzi. Appena un mese più tardi fu impegnato nella raccolta di fondi per sostenere l’impresa dei Mille e, d’accordo con Garibaldi, approntò egli stesso una seconda spedizione di volontari, che partì da Livorno. A capo del suo reggimento si scontrò a più riprese con le truppe borboniche, distinguendosi, come nella giornata di Milazzo, per valore e coraggio.

Nel gennaio 1861, con l’elezione a deputato nel collegio di Livorno II in cui riportò un consenso quasi plebiscitario, iniziò la sua vera e propria carriera di parlamentare, che lo vide sedere alla Camera negli scranni della Destra. Confermato ininterrottamente fino alle elezioni del novembre 1874, mostrò sempre una certa insofferenza per ogni stretto legame di partito e votò talora anche contro il governo.

Nel 1866, quando scoppiò la guerra per la liberazione del Veneto, non esitò a rispondere alla chiamata di Nino Bixio, sotto i cui ordini combatté con lo stesso grado di colonnello che aveva avuto nella campagna dell’Italia meridionale. Sempre a fianco di Bixio assisté nel settembre 1870 alla presa di Roma, con ciò ponendo fine a una lunga carriera militare che gli aveva fatto meritare numerose decorazioni, ricompense e medaglie al valore. Lo stesso re Vittorio Emanuele II lo nominò dapprima suo aiutante onorario e quindi, il 28 febbraio 1876, senatore. La nomina, convalidata il 10 marzo seguente, gli consentì di guardare con distacco alle vicende politiche di poco successive: la caduta della Destra e l’inizio del governo Depretis. Ancora una volta espresse comunque un giudizio severo sul comportamento della deputazione toscana di parte moderata, la cui decisione di far cadere il ministero Minghetti gli parve motivata più dalla difesa di concreti interessi personali che non da argomentate ragioni politiche. Dal canto suo, in ogni caso, egli si ritirò progressivamente dagli impegni pubblici e, a causa dell’ormai tarda età, non prese parte attiva ai lavori del Senato.

Trascorse gli ultimi anni della sua vita nella villa di Collesalvetti, presso Livorno, dove morì il 21 febbraio 1881.